INTERVISTE/interviews “DER VERZICHT” 2024
a cura di/curated by Alessandro Oliva,
assistente curatoriale/curatorial assistant
2020-2023
Joan Fontcuberta: in fotografia bisogna verificare la corrispondenza tra l’intenzione e il risultato - Simone Azzoni per Juliet Contemporary Art Magazine
Professione photo-consultant - Irene Alison - Simone Azzoni per Printlovers, n. 93, 2022 (pag. 68-71)
Uscite a scattare! - Sara Munari - Simone Azzoni per Printlovers, n. 92, 2022 (pag. 68-70)
Il mondo glamour di Susi Belianska -Simone Azzoni per Printlovers, n. 91, 2021 (pag. 56-59)
La comunicazione d’autore di Sudest57 - Biba Giacchetti -Simone Azzoni per Printlovers, n. 90, 2021 (pag. 66-69)
Moira Ricci: la verità dell’immagine - Simone Azzoni per Juliet Contemporary Art Magazine
Le vecchie foto sono come la luce delle stelle - Yvonne De Rosa -Simone Azzoni per Printlovers, n. 89, 2021 (pag. 74-76)
Il presente infinito di Enrico Fedrigoli - Simone Azzoni per Printlovers, n. 88, 2021 (pag. 78-81)
Ernesto Bazan. L’occhio interno della fotografia - Simone Azzoni per Juliet Contemporary Art Magazine
Joey L., il fotografo di guerra autodidatta - Simone Azzoni per Artribune
Covisioni. Il progetto fotografico che racconta l’Italia dopo la quarantena - Simone Azzoni per Artribune
La foto buona? E’ quella che lascia dubbi - Fabio Moscatelli - Simone Azzoni per Printlovers, n. 87, 2021 (pag. 80-84)
Dario Mitidieri. Riflessioni sul fotogiornalismo nell’era dei social - Simone Azzoni per Juliet Contemporary Art Magazine
Lo stampatore Samuele Mancini racconta la fotografia di Giuliana Traverso - Simone Azzoni per Juliet Contemporary Art Magazine
La profondità di campo dei nostri ricordi - Angelo Tassitano - Simone Azzoni per Printlovers, n. 86, 2021 (pag. 70-74)
Essere un fotografo di strada. Intervista a Eolo Perfido - Simone Azzoni per Artribune
2018-2020
Intervista a Eolo Perfido sul progetto Interpose
di Simone Azzoni
La Street sembra la New York che si contrappone alla tastiera del pianista sull'Oceano in Novecento... come controllare un set infinito, fatto di mille luci, di mille persone, di infinite possibilità di improvvisazione?
Non puoi controllarlo. Il fotografo di strada deve diventare parte del flusso. E quando si immerge deve approfittare del potenziale di questo nuovo punto di vista per riconfigurare quello che vede attraverso gli strumenti tipici della street ovvero l’inquadratura e la sincronizzazione.
Come fai convivere nella tua identità di fotografo la programmazione e progettazione millimetrica dei set con l'idea romantica del fotografo che vagabonda sulle strade del mondo per alimentare la Street Photography?
Non mi costa nessuna fatica. Facciamo quello che siamo. Se dovessi tirare le somme tutta la mia vita è stata sempre scandita da due tensioni tra loro spesso contrarie. Con il tempo ho imparato a modularle in base a necessità ed istinto.
Il ritratto di strada è Street? Aldilà della risposta per chi hanno ancora senso le convenzioni con cui delimitiamo gli ambiti e i generi?
La storia della fotografia di strada ci dice che il ritratto di strada è parte integrante di questa disciplina, anche se gli “integralisti” che fanno un po’ fatica ad accettarlo. Alla fine poco importa. I confini nebbiosi della fotografia di strada sono il suo punto di forza. Ogni tanto qualche fotografo si incammina tra le nebbie e condivide con tutti un nuovo punto di vista sul reale.
Cosa ti avvicina ad un viso, un volto in strada per chiedergli di essere ritratto?
E’ un istinto. Lo guardi e senti la necessità di farne memoria. Poi ovviamente viene il momento dell’incontro e della persuasione. Negli anni ho imparato a cogliere velocemente alcuni segnali delle persone che ho davanti ma non esiste un modo infallibile di gestire questo momento così delicato. E può capitare che non si riesca a realizzare la fotografia. Quando accade mi spiace molto ma con gli anni ho capito che la Street è per sua natura una disciplina del fallimento e saperlo processare è fondamentale per poter trovare sempre nuove energie creative.
La Street per sua natura forse non è documentale, magari lo diventa poi. Cosa vorresti che documentassero le tue foto? E con quale forma? Una “casuale banalità” alla Ghirri o una costruzione architettonica perfetta alla Bresson? O nessuna delle due…
La street può essere approcciata con una volontà documentale. In questo caso la rappresentazione sincera di quello che ci circonda diventa un fine. In alternativa si può aspirare a riconfigurare il reale con l’obiettivo di realizzare immagini che aspirano ai reami dell’astrazione. Molti fotografi si muovono agilmente tra questi due modi di vedere la strada, mentre io sento decisamente più mio il secondo approccio.
Documentare richiede un modello di ricerca che secondo me non sempre si lega con i metodi ed i tempi tipici della Street Photography. È sostanzialmente un altro lavoro.
Poi come dici tu giustamente, tutta la street ad un certo punto, suo malgrado, diventa prima o poi una forma di documentazione/testimonianza del tempo in cui ha operato il fotografo.
Spesso cerco nelle mie fotografie equilibri grafici e compositivi. Ho provato a volte ad avere un approccio diverso ma la mia attitudine più evidente nella street è quella di portare ordine nel caos.
Se dovessi dirti cosa spero di comunicare ti direi che mi accontento di ispirare un senso di stupore in quelle persone che decidono di osservare il loro quotidiano attraverso il mio sguardo.
Nella Street sei più attento al contesto, paesaggio e le sue forme grafiche o la narrazione ad esse interne, il contenuto quotidiano o eccezionale? Come costruisci la relazione tra figura e fondo/contesto? Cosa ti interessa mettere in evidenza nell'eterogeneità dell'immagine?
Lavoro sostanzialmente in due modi. Se vengo ispirato dal contesto costruisco le immagini partendo dalla componente statica (architetture, oggetti, persone sedute o comunque ferme) per poi attendere la componente dinamica (persone, oggetti in movimento). Cerco sempre un equilibrio grafico nei rapporti tra le parti statiche e quelle in movimento.
Se invece ho voglia di prossimità e di fare memoria di gesti, sguardi ed interazioni più intime tra le persone, allora mi immergo in mezzo alla gente e costruisco equilibri fatti di sguardi, piccoli dettagli e rumore.
Street è riconfigurare il reale. Con quale poetica o fine?
La Street è un Haiku. Un lavoro di sintesi. Si toglie per dare. Non ha un solo fine. Genera emozioni asincrone. Silenzi rumorosi. Non è mai assoluta ma invita a conversare.
Quando esci in strada a cosa ti predisponi? A quale meraviglia o stupore?
Cerco di non avere troppe aspettative. Il mondo per quanto a volte banale nelle sue manifestazioni, è sempre pronto a meravigliarci. Preferisco quindi dedicare le mie energie a farmi trovare pronto nel momento in cui potrebbe accadere qualcosa di inaspettato.
Tu insegni. L'allievo non deve ripetere il gesto, lo stile, la cifra del maestro. Come educare il muscolo (cuore o testa che sia) affinché scatti in autonomia ma consapevole della tua poetica e del tuo sguardo?
Copiare è parte del processo di crescita. L’impianto stilistico si può emulare, ma non diventerà mai qualcosa di particolarmente significativo se non aspira ad essere contaminato da quanto di più personale abbiamo da investire.
Il muscolo serve a darci le fondamenta, gli strumenti, le capacità. Poetica e sguardo seguono un percorso diverso. Hanno a che fare con la vita. Gli autori più bravi sono quelli che riescono a comprendere l’importanza dell’uno senza sacrificare il valore dell’altro. Equilibri delicati che ognuno di noi vive e gestisce in modo diverso. Non si può insegnare ma si può certamente aiutare a capire la propria indole ed indirizzarla verso un percorso più lineare.
Cos'è un ritratto? Dov'è la persona quando l'immagine fissa il volto in una pellicola di tempo? Il ritratto diventa una maschera di cera? Un'immagine fantasmatica dell'assente come direbbe Nancy?
Ogni ritratto è un’approssimazione. Alcuni ritrattisti cercano di esprimere rocambolesche ma sincere opinioni attraverso le loro fotografie. Vogliono restituire qualcosa che si approssimi al vero. Altri invece vedono nell’altro uno “strumento attoriale” per costruire personaggi che spesso poco hanno a che vedere con la persona ritratta. I primi sono quei ritrattisti che cambiano dopo ogni ritratto, perchè l’incontro li trasforma. I secondi sono coloro che realizzano sempre lo stesso ritratto indipendentemente dal soggetto fotografato alla ricerca di quell’immagine spesso sfocata che li ossessiona da anni.
Quali sono gli ingredienti che costruiscono l'incontro con la persona che decide di intraprendere un percorso con te di ritratto in studio?
Nei workshop di gruppo cerco di condividere in modo schietto, sincero e generoso tecniche, metodi ed attitudini che mi aiutano ad ottenere le mie fotografie. Nel modo più semplice ed onesto possibile condivido quanto ho imparato in anni di lavoro.
Nei workshop 1ON1 mi pongo invece un obiettivo diverso ovvero cercare di tirare fuori il potenziale dal fotografo che sto formando. E’ un percorso molto più faticoso perché devo capire prima di tutto cosa e come vede. Fargli fare esperienza del mio modo di vedere e poi aiutarlo a costruire qualcosa di personale. Per questo un workshop 1ON1 con me dura diversi mesi.
Come conciliare la necessaria memoria iconografica con l'autenticità di un sentimento che si disegna sul volto.? La rabbia ad esempio, può avere un cliché di riferimento, uno stereotipo che viene da altre discipline (il cinema, l'arte) come dirla ogni volta in modo nuovo? Come stimolare l'altro al cambiamento continuo?
La rabbia o qualsiasi altro sentimento si manifesta sempre con sfumature riconoscibili ma anche uniche perché personali.
In fotografia bisogna sempre saper riconoscere la sottile linea che divide il vero dal verosimile. L’arte è quasi sempre rappresentazione. Se è credibile diventa vettore di emozioni e strumento di conversazione.
Il ritrattista deve diventare bravissimo nel portare il suo soggetto nei reami della rappresentazione e lo fa attraverso quella che io definisco una vera e propria performance fatta di interazione, silenzio, gestualità e tecnica fotografica.
Quale memoria di immagini è necessaria per costruirsi modelli, formati da cercare poi nei volti senza cadere nel cliché o nello stereotipo?
Viaggiare in tutto il mondo, come ho avuto la fortuna di fare, aiuta a sviluppare la consapevolezza che i sentimenti possono essere rappresentati in modi molto diversi a seconda delle diverse culture. Farne memoria è importante per poter poi riconoscere i momenti più autentici che si manifestano durante una sessione fotografica.
Qual è il genere fotografico su cui maggiormente si può produrre innovazione, sperimentare i linguaggi?
Sinceramente penso che in tutti i generi ci sia la possibilità di essere innovativi. La mente umana è meravigliosa.
Cos'è l'inaccessibile all'analisi della fotografia?
Una foto difficilmente ci permette di fare quel percorso inverso che ci consente di comprendere ciò che pensava e sentiva l’autore nel preciso istante in cui ha scattato quella fotografia. Questo corto circuito mi fa pensare a quello che in fisica quantistica chiamano il principio di indeterminazione di Heisenberg. Non puoi misurare contemporaneamente ciò che la foto ti comunica e ciò che il fotografo sentiva. Uno dei due contesti rimane sempre inaccessibile all’osservatore.
Cosa hai imparato maggiormente dai tanti maestri che hai frequentato?
Tenacia, costanza, pazienza e perseveranza.
Eolo Perfido Street Photography
Intervista a Alessandro Cristofoletti sul progetto
Dolomites Stories
di Simone Azzoni
La prima domanda è quasi naturale: con quale strumento racconti meglio ciò che l’occhio vede e il cuore sente: la penna o la macchina fotografica? E come definiresti il rapporto tra questi due linguaggi?
Non ho uno strumento preferito. Sono ottimi mezzi di indagine profonda del reale e sebbene lavorino e funzionino in modo diverso (non troppo secondo me) cerco di farli comunicare fra loro e far sì che uno integri e arricchisca ciò che è detto dall’altro. Entrambi si prestano all’occorrenza sia alla narrazione che alla rappresentazione. Solitamente, in DS, il punto di partenza è un fatto, una storia, un elemento che buca la trama dell’ordinario. Il primo passo quindi è la penna. La fotografia segue quasi sempre con un controcanto: alla diegesi accosto l’allusione, quando mi riesce la metafora. Provo ad avvicinarmi ai soggetti e ai rapporti dei soggetti con il loro ambiente con due sguardi differenti ma complementari, uno per la fotografia e uno per la scrittura. Il risultato finale cambia di volta in volta e mi soddisfa solo se riesco a percepire di aver stabilito un contatto profondo attraverso tutti e due i linguaggi.
Negli anni 70 Long e molti artisti della Land Art sostenevano che camminare equivale a conoscere. Essere nel paesaggio, andarvi alla deriva è una forma di conoscenza… cosa significa per te camminare?
Sono piuttosto d’accordo con quest’idea, a patto che alla base ci sia una volontà di indagine e di scoperta. Per essere uno strumento di conoscenza, il cammino non può essere solo fisico, la deriva dev’essere consapevole; la fatica non fine a se stessa. Chi cammina senza alzare lo sguardo dalle proprie scarpe non può conoscere più di chi legge libri senza prestare attenzione ai concetti. Pagine in un caso, chilometri nell’altro, scivolano alle spalle e ci si dimentica in fretta di averli percorsi. Per questo ogni volta che cammino cerco di immagazzinare quanti più elementi possibili, di farli miei: dai nomi delle cose e dei luoghi, alle sensazioni, alle immagini, alle storie. Il cammino allena allo sforzo i miei organi e la mia curiosità, mi invita alla frugalità e alla schiettezza, mi permette di interrogarmi su me stesso nel mio rapporto col mondo, fa bene al mio girovita e, infine, mi insegna il piacere: chi ha mai bevuto una birra ghiacciata dopo una gita di otto ore sa di cosa parlo.
In Dolomites Stories, scrivi, racconti i "segni che derivano dal rapporto fra uomo e ambiente”. Come si può raccontare questo rapporto senza cadere in una manichea separazione tra natura buona e uomo cattivo?
La separazione che emerge dai racconti di DS non è tanto quella fra natura buona e uomo cattivo, ma fra una natura priva di giudizio e un uomo che si chiede ciò che è giusto e sbagliato. Un tema ricorrente nelle storie è proprio questo: la dicotomia fra bene e male è una prerogativa prettamente umana. Di fatto, questa grossa differenza, assieme alla tecnologia di cui siamo capaci, è quella che ci fa supporre di essere diversi, evoluti a tal punto da poter fare a meno degli alberi, dell’acqua, dell’aria, dei nostri stessi corpi mortali. Ma si tratta di una presunzione adolescenziale. L’uomo capitalista e positivista è ormai uscito dalla sua infanzia. Dall’adorare (e temere) ogni gesto e manifestazione della madre è passato alla fase di ribellione e smantellamento dei valori materni, come ad esempio l’omeostasi. Questo comportamento non credo che agli occhi di una natura dotata di coscienza potrebbe essere visto come “cattivo”, ma solo dannoso per la salute dell’ecosistema familiare e per la nostra crescita come civiltà. Al pari di un figlio border line, camminiamo lungo la linea sottile che ci separa dal baratro, ma è il nostro baratro, non quello della natura. Essa potrà soffrire, sta già soffrendo molto, ma dal momento in cui ce ne andremo saprà dimenticarci in fretta.
Cos’è e qual è l’anima di un luogo? In essa si ritrova il fossile e il contadino… quale sostanza ne fa un’unità e una identità comune?
Personalmente credo che l’anima di un luogo per mostrarsi abbia bisogno sia di uno sguardo attento ai dettagli sia di uno in grado di cogliere la gestalt, la visione di insieme di tutti gli elementi che compongono il paesaggio. Come riconosciamo un amico dall’analisi inconscia e fulminea dei particolari del suo corpo, della voce, dei movimenti e del viso, così funziona anche per i luoghi. Ma l’anima è qualcosa di più sottile e profondo della morfologia, ed è sfuggente quanto un pesce tirato fuori dall’acqua. Più ci avviciniamo all’anima di un luogo, più le parole tendono all’approssimazione. Non abbiamo a che fare con un concetto chiaro e definito, e nemmeno con un’immagine chiara e confusa, ma con una sensazione oscura e confusa. Questo non vuol dire che essa non esista o che in alcuni momenti non ci sembri quasi tangibile. Il modo in cui la percepiamo però è e rimane soggettivo. Io la posso avvertire, chi mi sta accanto può non sentire nulla. Come l’anima di un amico, io riconosco l’anima di un luogo attraverso il rapporto che mi lega a lui. La parola d’ordine è sempre una: relazione. La sostanza che unisce il fossile e il contadino è la mia anima protesa ad accoglierne un’altra.
Quando finisce il mosaico che racconta un territorio? Quali confini ne legittimano la sua identità…?
Questo mosaico è un’opera aperta. Avrà sicuramente una fine, ma solo a livello formale. Nei miei sogni continua ad espandersi con il contributo di nuove persone. Altre penne, altre macchine fotografiche da accostare alla mia nel raccogliere frammenti e avvicinare sempre più l’anima di questo luogo. Prevedendo un grande numero di racconti ho pensato a dei modi con cui consultare l’archivio del sito. Uno è tematico e funziona con i tag (in cui si possono filtrare ad esempio tutte le storie che parlano di Grande Guerra, o di mestieri, o di natura), l’altro è geografico e distribuisce i contenuti su una mappa interattiva. Ho stabilito i confini della mappa, e dell’intero lavoro, all’interno delle cinque province dell’area dolomitica, che sono Bolzano, Trento, Belluno, Udine e Pordenone. Anche se le Dolomiti dal punto di vista geologico coprono un areale molto più ristretto ho voluto lavorare in modo inclusivo. Chi dice Dolomiti non comprende solo grandi rocce composte di carbonato doppio di calcio e magnesio, ma un’enorme varietà di strati geologici sovrapposti: basalti, calcari, arenarie, rocce vulcaniche e metamorfiche. Questa compresenza di elementi diversi è un emblema di quanto abbia poco senso tendere alle cose in “purezza”. L’identità di un luogo non è mai una e immutabile, ma è un insieme in continuo movimento. Alle culture, ai luoghi, a tutto ciò che esiste in natura e che superi le dimensioni del subatomico può andare bene la formula di Walt Whitman “sono vasto, contengo moltitudini”.
Perché a tuo avviso c’è ancora bisogno di ascoltare e raccontare storie?
Questa domanda mi fa venire in mente una frase molto bella dello scrittore Jonathan Gottschall, che dice che “le storie sono per gli esseri umani ciò che l’acqua è per i pesci, cioè vi sono immersi ma è un fatto impalpabile.” Anche grazie a Dolomites Stories ho iniziato a pensare che noi siamo le storie che sappiamo raccontarci. I nostri stessi pensieri sono composti dalle parole e dalle immagini che usiamo per farlo. Per questo credo sia importante continuare a leggere, ascoltare e raccontare. Come i giochi dei bambini, i quali partono sempre da narrazioni interne o esterne (esempio di quanto fin da piccoli ci formiamo spontaneamente attraverso i racconti), le storie sono un costante esercizio alla vita. Chi per pigrizia o paura rinuncia alla ricerca di storie nuove con cui alimentarsi, rinuncia a crescere.
In un progetto per Borca hai messo la macchina fotografica ad altezza sguardo del bambino. Qual è il punto di vista (anche fisico) migliore per guardare la montagna?
Salire, scendere, fare il giro. Camminare su un sentiero permette di esplorare la tridimensionalità di un luogo, di osservare lo stesso oggetto da più punti di vista. A me viene sempre da fare un’analogia con il mio paesaggio interiore. Non esiste una posizione migliore delle altre da cui guardare, anzi, il bello sta proprio nel passare da una all’altra. La montagna non è solo un ammasso di roccia e prati verdi, e il nostro andare in montagna non è solo mettere un piede avanti all’altro. Per chi li cerca, i cambi di prospettiva parlano di quanto le cose, interiori o esteriori, sono sempre più complesse e diverse da come sembrano se guardate da unico punto di vista.
E termino con una domanda ovvia come la prima, c’è in te una definizione di montagna che trascende le latitudini e le differenze morfologiche?
Non ho una definizione precisa. Ho però un’idea piuttosto chiara di alcuni elementi che stimolano la mia curiosità e il mio interesse, che io identifico con la montagna ma che ho ritrovato anche altrove. Ad esempio l’umanità residuale, rarefatta e il rapporto che essa instaura con la natura; il senso di limite, di un margine che non si può oltrepassare: in montagna può coincidere con una vetta o un ghiacciaio, in un arcipelago come le Azzorre, dove ho vissuto, può essere il mare o la linea dell’orizzonte; il confronto con l’ignoto. Come Giovanni Drogo nel Deserto dei Tartari, dalle feritoie del nostro forte o dalla finestra di casa, osserviamo qualcosa di più grande e sconosciuto rispetto alla nostra capacità di comprendere, sentiamo di vivere lungo un confine al di là del quale proiettiamo, come fossero ombre serali, le sostanze del nostro inconscio collettivo: miti, desideri, paure.
Intervista a Milo Manara sul progetto di Enrico Fedrigoli MOSTRATA SIA
di Simone Azzoni
Cosa sente di primo acchito scorrendo le immagini di Mostrata sia...?
C'è una coerenza e unitarietà stilistica, di linguaggio e una grande varietà di interpretazioni. È un ritratto, frammenti del ritratto di questa donna. Non è una modella, ma una presenza forte. È una persona, non solo una donna, ritratta all'interno di una costruzione visiva molto precisa.
Con quale senso va percepita Mostrata sia?
L'immagine di lei con la sigaretta penzolante dalla bocca, ad esempio, è quella di una persona dall'aria sofferta. Guarda nel vuoto ma ci rappresenta una situazione al limite dello squallore. Qua non si tratta di una costruzione estetica, ma c'è anche una costruzione sociale dell'immagine. Per cui non c'è solo la vista da considerare ma casomai l'estetica è tutta nel linguaggio fotografico.
Mostrata sia è anche - come lo fu per Opalka - una misura del tempo. Lungo un asse cronologico assistiamo al variare di una costante. L’erotismo, secondo Lei, è questo precario equilibrio di presente/attimo e spazio, o è condizione eterna che prescinde dal tempo e dallo spazio ma dipende solo da una relazione tra sguardi e corpi?
L'erotismo vive soprattuto di interazione con il contesto ed è con altri personaggi. Anche ne Le petite déjeuner sur l'herbe, c'è una donna nuda che è valorizzata dal contesto: è insieme a due uomini vestiti, durante un pic-nic. È l'incongruità ad aver suscitato uno scandalo enorme. L'erotismo è dato non tanto dalla nudità della donna ma dal contesto. Dall'interazione tra i due uomini vestiti e il contesto.
Quando secondo Lei un corpo è nudo...?
Se noi consideriamo il nudo solo come nudo è atemporale. I nudi anche greci, rappresentano l'essenza dell'umanità, non hanno valenza erotica ma paradigmatica, il nudo come elemento a-temporale. Un corpo è nudo quando è la donna che ce lo dice, quando è lei che ce lo fa capire. Deve esserci qualcosa nel suo sguardo o nel suo corpo che ci dice che è nuda. Se una donna ora ci telefonasse e ci dicesse “sono qui nuda” ci sarebbe una esplosione della sua nudità. Mentre in altri casi, di fronte ad una nudità non dichiarata, l'impressione è che si tratti di una persona vestita.
Alla Berger, Le chiedo: chi gestisce, chi è il “padrone” della teatralità dell’eros? La donna o lo spettatore che guarda?
È la donna che detiene il potere. Naturalmente ci sono anche altre declinazioni. Bonanrd ad esempio o Degas, rappresentano figure femminili inconsapevoli dello sguardo. In alcuni casi è la donna padrona dello sguardo e in altri casi è inconsapevole e scatena così il voyeurismo il furto di erotismo.
Campo e fuori campo nell’erotismo. Quanto deve essere inquadrato e quando deve rimanere fuori dalla cornice per innescare fantasia e desiderio?
L'erotismo ha a che vedere con la società, con il pubblico. Tutto quello che riguarda la pubblica trasgressione ha a che fare con l'erotismo e l'erotismo ha un suo fortissimo aspetto sociale nella trasgressione del comune senso del pudore. L'erotismo è un concetto sociale.
A Warhol interessava ciò che sta fuori la camera da letto...
Perfettamente d'accordo e in linea. Quello che succede in una camera da letto è uguale in tutte le stanze del mondo. Nel progetto di Fedrigoli c'è una situazione di ambivalenza. Ci sono immagini in cui la modella ci guarda. Ecco che allora non è più da sola nella sua camera da letto, ma c'è la presenza del fotografo e quindi anche la nostra. La donna ci guarda con un sorrisetto ambiguo.
Nella pornografia lo sfondo è una opaca presenza. Nell’erotismo invece quanto conta il contesto?
L'erotismo è l'elaborazione culturale del sesso. Mentre la pornografia è la rappresentazione del sesso. La pornografia è un chilo di patate mentre l'alta cucina è l'elaborazione.
Se c'è elaborazione siamo in presenza di erotismo. Se viene data importanza al contesto c'è una elaborazione culturale, quindi erotismo.
Sembra che gli oggetti continuino, dopo la elezione del Surrealismo, a raccogliere un travaso di desiderio (se posti accanto al femminile).. perché?
L'accostamento di due oggetti provoca un terzo oggetto. In pubblicità ciò è banale, qualsiasi cosa messa in mano ad una bella ragazza acquista altro valore. Però se le metto accanto lo scheletro di un topo scatterebbero altre considerazioni.
Sara Masotti entrerebbe nel suo pantheon di ragazze immaginarie?
Certamente sì, per il suo viso potrebbe essere di una modella di Picasso. Una cosa però: le chiederei di guardare più spesso l'interlocutore. Sono rare le immagini in cui lei ci guarda. Spesso ha lo sguardo perso nel vuoto. Lei è molto potente e forte, quindi ovvio che mi interesserebbe.
Intervista a Jacob Balzani Lööv sul progetto
Armenia and Azerbaijan: Sports behind enemy lines | The war that Europe forgot.
di Simone Azzoni
Jacob potresti definire il tuo rapporto con il paesaggio? Come costruisci cioè la relazione tra oggetto da osservare, ambiente in cui l'oggetto viene percepito ed epifania del senso che vuoi dare alla tua immagine?
Dietro ogni mia foto ci sono molti passi e tanto sudore. Un paesaggio non lo fotograferei mai a distanza, prima ho bisogno di perdermici dentro, di percorrerlo fisicamente dal punto a al punto b. Vago nell'attesa di un momento rivelatore in cui per un'istante tutto mi appaia chiaro e solo in quel momento scatto.
Quando decidi di raccontare una storia qual è il tuo obiettivo principale? L'obiettivo precede il racconto o nasce strada facendo?
Il fine ultimo per me é sempre raccontare. É una continua tensione ermeneutica che sento dentro di me. Non voglio fornire conclusioni ma voglio fornire chiavi che aiutino le persone a comprendere e vivere meglio. Non perché non mi piacciano le conclusioni ma perché credo che arrivarci da soli le renda più forti.
Cosa ti interessa o ti incuriosisce dell'altro, della persona che incontri e diventa capitolo o paragrafo del tuo racconto?
Dipende dal lavoro che sto facendo. Se é un classico lavoro giornalistico come in Sport behind enemy line, la persona, la sua storia e quello che ha da dire é elemento chiave del racconto. Al contrario nei miei progetti personali recenti uso il ritratto alla stregua di paesaggio. Le persone che appaiono in un luogo ne diventano parte. C'è una reciproca influenza tra gli uomini come architetti dello spazio e il paesaggio che si viene a creare e che, a sua volta, influenzerà chi lo vive. In questo caso non mi interessa molto della persona, non che non ci parli, anzi... semplicemente il mio approccio non é più domandare chi, come, quando, perché e ricercare delle belle citazioni. É un processo liberatorio in cui lascio che siano volti e paesaggio a raccontare. Senza dubbio la voce di un paesaggio é molto più autorevole della mia.
Spesso è difficile oggi per un fotografo riceve commissioni da giornali e riviste. Spesso sono i fotografi a dover proporre i loro progetti... perché secondo te? Cosa è cambiato e cosa sta cambiando?
C'è troppa offerta e sempre meno domanda. Spesso un giornale trova già fatto un lavoro che vorrebbe pubblicare e lo compra per un prezzo irrisorio rispetto a un commissionato. C'è questa tradizione che trovo assurda per cui si paga meno il lavoro pubblicato in rete che quello stampato, assurda perché raggiunge senz'altro più persone quello in rete. La fotografia, perfino quella giornalistica, sta diventando sempre più un hobby elitario, per chi se lo può permettere e che quindi rischia di rendere la fotografia molto parziale. A rendere le cose peggiori ci sono una marea di persone che lucrano sui fotografi, ci sono moltissimi concorsi con tariffe di ingresso esagerate in cambio di una piccola speranza di visibilità. Stiamo assistendo a un'epoca in cui la fotografia diventa un linguaggio popolare ma contemporaneamente la professione muore.
Ci racconti come è nato Sports behind enemy lines? Lo sport diventa un “come se” una normalità da tra-guardare tra le righe di ben altre urgenze.
Ci sono tanti "come se" in questa storia che ha ben poco di normale. Quante volte due nazioni in guerra si sono incontrate ai giochi olimpici? Quella era l'idea parlare con un taglio diverso della guerra tra Armenia e Azerbaijan che va avanti dal 1991. I primi, e probabilmente ultimi, giochi europei, uno spinoff continentale dei giochi olimpici, hanno avuto luogo a Baku nel 2015. Si può discutere se l'Azerbaijan faccia o meno parte dell'Europa ma di sicuro non ne condivide i valori democratici poiché la famiglia Aliyev, padre e poi figlio, viene ininterrottamente rieletta da trent'anni. Solo la fame di petrolio dell'Europa può spiegare questo scambio di favori. L'altro "come se" é la competizione sportiva che si vanta di essere apolitica ma che invece qua diventa esattamente il contrario, per un armeno non é la stessa cosa affrontare un azero e viceversa, sentono addosso una forte pressione. Il comitato olimpico non mi ha di sicuro incoraggiat0 in questo reportage ma quando alla cerimonia inaugurale é apparso l'ultimo teodoforo, segreto fino all'ultimo, ho pensato di avere fatto centro: era campione di judo paralimpico, era cieco perché gli aveva sparato in testa un cecchino armeno.
Scorrendo i tuoi progetti, sento una tensione: quella di contrastare la forza centripeta della periferia con una necessità etica di riportare al centro ciò che il tempo ha relegato ai margini. Mi puoi dire l'intima necessità che guida il tuo peregrinare nelle geografie del mondo?
La maggior parte dei miei lavori parlano, in un modo o nell'altro, di persone profondamente legate al luogo in cui vivono, come si crea questa connessione estatica tra l'uomo e la terra? É il concetto di Topofilia, coniato da Yi-Fu Tuan, una delle figure chiave della geografia umana. Sento poi un grande bisogno di comprendere a fondo gli eventi con la dovuta lentezza. C'è grande attenzione alla cronaca, alle guerre, ai morti ammazzati ma poi quando si tratta di capire bene il cuore delle cose la stampa tradizionale passa oltre.
Il progetto Ustica lavora – così lo leggo - sulla permanenza di un invisibile immanenza. Come la memoria cambia i luoghi e la percezione che abbiamo di essi?
Rispondo con un'altra domanda, Chiudete gli occhi e pensate a Ustica, quale immagine vi viene in mente? La sera del 27 giugno 1980 poche ore dopo l'ultima gara di apnea di Majorca, Ustica, da splendida isola turistica é diventata in un attimo una strage. Quarant'anni di misteri e depistaggi hanno fatto sì che Ustica nelle mente degli Italiani diventasse solo la foto dei rottami biancorossi del DC9. I giornalisti scrivono sempre "accadde nei cieli di Ustica" ma l'aereo é caduto a 113 km di distanza. Il mio lavoro cerca di riassegnare i giusti significati ripercorrendo sia la storia della tragedia che quella dell'isola. Uso linguaggi fotografici diversi: bianco e nero, georeferenziato, per la tragedia e colori per l'isola. Un malgoverno non rovina il paesaggio solo con gli abusi edilizi, può rovinarne anche l'idea e il ricordo.
“Il mondo l'abbiamo davanti agli occhi”, ha detto recentemente in tempi di Covid Monika Bulaj, eppure sentiamo l'urgenza di andare. Dove si dirigeranno i tuoi prossimi passi e perché?
Hai detto bene: passi. COVID volendo spero di poter tornare presto in Israele, che sto cercando di raccontare con un approccio inusuale, il cammino. Finora ho percorso 800km e chi sa quanti me ne mancano! A piedi perché mi illudo che faticando mi conquisti un po' il diritto di parlare di questo luogo. A piedi perché così si muoveva Gesù. A piedi perché ho bisogno di arrivare in luoghi che non ho pianificato per sfuggire agli stereotipi che mi riempiono la mente. Ci sono così tanti strati e significati che é impossibile non farsi dominare dal paesaggio. Poi sto finendo un progetto sulla relazione tra me e mio padre che negli ultimi cinque anni abbiamo fatto diversi road trip nella sua terra, la Svezia. Un po' la scoperta delle radici che ho nel sangue. Ma questa ve la racconto un'altra volta.
Intervista a Silvio Canini sul progetto
Cosa cerchi, il mare?
di Arianna Novaga
Raccontami come nasce questo lavoro dal titolo Cosa cerchi, il mare?
Anni fa ho fatto una mostra in cui esponevo una serie di fotografie di dune sulla spiaggia, di quelle che d’inverno vengono erette sul bagnasciuga per evitare le mareggiate. Le dune erano protagoniste ma il mare, che era nascosto proprio lì dietro, non si vedeva mai. Qualcuno me lo ha fatto notare, e ho pensato che proprio questo nascondere l’acqua poteva rivelarne al contrario l’essenza più profonda. Che poteva far emergere mondi inaspettati.
Allora ho chiesto ai visitatori di quella mostra che cosa si aspettavano di trovare dietro quelle dune, che cosa cercavano, e poi mi sono domandato che cosa ci vedevo io. Che cosa cercavo? Cercavo davvero, il mare? Ho scoperto così che quello che c’è, per me, dietro a quelle dune, è un paesaggio inesistente composto da luoghi diversi, anche lontani nello spazio e nel tempo, ma che amo profondamente perché mi rappresentano. Paesaggi che sono più mie proiezioni, mie architetture mentali. Alcuni dei luoghi che ho inserito dietro alle dune sono legati, ad esempio, all’Uragano Sandy, che ho vissuto personalmente a New York. C’è una notturna scattata alla Defense a Parigi quando ho incontrato lì un amico importante. E poi c’è Coney Island, dove ho avuto uno scontro diretto con la polizia che mi ha fermato perché fotografavo dove non dovevo, e poi Milano, Rimini, tutti quei posti dove ho avuto un’esperienza importante, che mi hanno creato una situazione da ricordare.
Quindi, potremmo dire che si tratta di un lavoro autobiografico?
Tutti i miei lavori raccontano di me e credo che questo valga per tutti i fotografi, a prescindere da quello che fanno. Perché quando fotografi ci metti quello che conosci, che sei, che hai. Ci sei te dentro, sempre e comunque. E in questo progetto in particolare.
Ogni paesaggio mi rappresenta, è specchio di me. Le dune sono quelle della riviera adriatica, sono le mie radici profonde. Quello che appare dietro di esse proviene invece dalle città in cui ho vissuto. In ognuno di questi luoghi, come dicevo. ho cercato e fotografato degli scenari che potessero raccontare qualcosa, uno spazio o un momento che mi appartiene.
E’ stato come mettere insieme pezzi della mia vita. E’ una questione sentimentale, credo. Avevo bisogno di giustapporre situazioni che sono collegate tra loro nella mia mente ma non nel mondo reale. Racchiudendo queste esperienze nella cornice di una fotografia le ho recintate, bloccate per sempre. E sono diventate dei sogni. A volte la fotografia è così, rappresenta quello che pensiamo o sogniamo. E’ come un sogno che ti sembra vero.
Questo lavoro si discosta dal tuo solito approccio che, per quanto spesso intriso di concettualità, è sempre legato agli accadimenti reali. Avevi mai sperimentato montaggi di questo tipo? Che cosa ha rappresentato per te questo salto di linguaggio?
Io amo la semplicità che per me è il concetto più forte di tutti. Di solito, infatti, cerco di cogliere le cose mentre succedono. La cosa che mi dà più soddisfazione è quando riesco a raccontare qualcosa senza cercarla troppo, per far vedere quello che c’è sotto i nostri occhi ma che magari non riusciamo a vedere. In questo caso, però, è stato tutto diverso, perché mi sono costruito quello che era nella mia testa. Non avevo mai fatto una post produzione così evidente, ed è stata una interessante sperimentazione, dettata dall’esigenza del momento. Tuttavia, non li ritengo semplici fotomontaggi. Inizialmente ho agito di impulso per mettere insieme le cose in modo semplice, e poi mi sono reso conto che avevo già in mente l’immagine che volevo produrre e che corrispondeva a quella proiezione di cui ti parlavo, e quindi avevo bisogno di fotografare luoghi specifici, che si adattassero a quello vedevo nella mia testa. E sono andato a cercarli. Tutte le immagini sono state pensate e costruite così. Tranne una.
Ce n’è una, tra le altre, che contiene in sé panorama originale, uno scenario che sembra inesistente come gli altri ma che esiste davvero. Ma non dico qual è. Sta a chi guarda cercarla e trovare il suo mare.
Lo cerchi spesso questo mare, nelle tue fotografie?
Sono nato sul mare, e non mi immagino da nessun altra parte se non sulle sue rive. Ho un rapporto fortissimo, viscerale, che mi prende completamente. Guardarlo cambiare di stagione in stagione, stargli accanto, passeggiare sulle sue rive, osservare le persone che lo frequentano, è il mio modo di rilassarmi. Mi fa pensare, meditare, mi sembra di capire le cose con più lucidità.
Nella esposizione dei tuoi lavori fotografici c’è sempre una dimensione installativa e talvolta anche performativa. Quanto è importante questo aspetto per comunicare la tua fotografia?
E’ molto importante, sì. Per questo progetto, quando ho sentito la necessità di interagire con il pubblico della mostra sulle dune di cui ti parlavo, ho voluto creare una sorta di installazione. In una boule di vetro gli spettatori della mostra inserivano un bigliettino in cui scrivevano come vedevano il proprio mare. Alla fine ho rotto il contenitore con un’azione performativa e ho letto pubblicamente le impressioni degli spettatori.
E’ il mio modo di creare un rapporto con il pubblico, che voglio coinvolgere emotivamente e fisicamente. Un altro lavoro installativo è stato La polvere esausta dei millenials, una critica alla quantità di fotografie prodotte e postate sui social come Instagram. Anche in quel caso ho creato una sfera di vetro in cui fluttuavano e si mescolavano una serie di immagini grazie ad una ventola che produceva un flusso d’aria all’interno. Non c’era modo di vedere le fotografie, che sparivano nel flusso continuo. Quello stesso flusso dei social che appiattisce, globalizza, in cui tutti sono bravissimi a fotografare ma sparisce la personalità. Volevo raccontare questo problema senza essere banale. La carta delle fotografie, girando e fluttuando con il passare dei giorni, si è decomposta ed è divenuta polvere.
Dal punto di vista performativo invece, ho di recente realizzato un lavoro che si chiama Alieni Maledetti, in cui sono diretto protagonista perché durante la proiezione delle immagini sono presente e racconto una storia.
C’è sempre qualcosa di teatrale nella tua fotografia.
Tutta la fotografia per me è una teatralizzazione del reale. E’ come aprire un sipario e vedere una scena in cui sta per accedere qualcosa. Ma c’è un mistero su cosa accadrà. Ci sono personaggi che appaiono e sono come comparse, non hanno un ruolo, ed è interessante per chi guarda, lo spettatore, capirne la funzione. A volte invece, come in questo caso, la scena si costruisce e diventa palcoscenico su cui accadono i fatti.
Intervista a Stefano Mirabella sul progetto DOM
di Simone Azzoni
DOM: è un ritorno o un andare, un ri-vedere o uno scoprire? Ci racconti la genesi di questo progetto?
Dom è tutto questo, è sia una che l’altra cosa. E’ un viaggio di scoperta e riscoperta di un mondo che, con il passare degli anni, ho imparato a conoscere e apprezzare. E’ un viaggio di conoscenza, fatto di rapporti e legami ereditati. E’ un diario di famiglia. Dom è casa, la casa dove è nata e cresciuta la mia compagna prima di trasferirsi in Italia, è il luogo dove ha trascorso l’infanzia. Quell’infanzia ancora protagonista, attraverso i visi, gli occhi e i giochi dei bambini che abitano lo stesso luogo ora. I suoi e i miei nipoti, senza i quali le brevi estati, in questo minuscolo villaggio nell’estremo nord della Polonia, sarebbero sicuramente più monotone e meno felici. Negli anni sono diventati proprio i bambini i protagonisti di questo racconto, lo scorrere delle giornate scandite dai loro giochi, dalle loro grida e dalla loro crescita, in un luogo che sembra fermo, immobile, impermeabile ai cambiamenti che il progresso impone quasi dappertutto. Mia figlia, per venti giorni l’anno, si unisce ai giochi dei sui cugini e prova a creare legami che puntualmente dovranno attendere l’anno successivo per continuare il loro lavoro di consolidamento. Io con loro e con la mia macchina fotografica, ho assistito nel tempo a tutto ciò, raccontando semplicemente lo scorrere della vita quotidiana, in questo micro mondo fatto di cose semplici.
Come hai costruito la dimensione temporale che ora sembra de-frammentare la cronaca in quadri, ora sembra isolare attimi in cui ribolle un tempo denso di spiritualità arcaica e intimista..?
Semplicemente ponendomi come spettatore, lasciandomi trasportare, nel vero senso della parola, dalla vita e nella vita di questi bambini, seguendoli curioso nei loro piccoli gesti, nei loro momenti e nei loro giochi. Assecondando i loro spostamenti, le loro relazioni ed il loro stretto rapporto di fusione con l’ambiente circostante.
C’è anche un “tempo” nelle tue immagini che si dà come emersione, come kairos di un altrove, apertura che eccede l’osservazione pura..
La “questione” del tempo è stato uno elemento cruciale nella realizzazione di questo lavoro. Non ho mai provato in vita mia una sensazione di “immobilità temporale” come nei periodi passati in questa fattoria. L’invariabilità dei luoghi e delle situazioni negli anni mi ha sempre lasciato interdetto, facendomi riflettere sui “benefici” del progresso, che dalle nostre parti invece coincide troppo spesso con la fretta e l’ansia di cambiamento. Quello che ho raccontato è un luogo schermato, protetto, dove il tempo non è scandito solo dagli uomini ma rimane ancora gestito principalmente dalla natura.
Quale idea di paesaggio volevi comporre nella relazione tra uomo e natura?
Di assoluta fusione, un luogo gestito dall’incedere delle stagioni e dominato dalla natura, dove l’uomo ha rinunciato al suo protagonismo e ha accettato la simbiosi. Una volta compreso tutto ciò, è risultato davvero semplice apprezzare e di conseguenza “catturare” alcuni gesti, di cui i bambini si rendevano spesso protagonisti. Gesti che diventavano unici grazie alla loro sconcertante semplicità.
Le immagini di questo progetto si aprono a paesaggi sonori, si sentono i luoghi.. i loro rumori, voci.. silenzi
Non potevi fare osservazione più mirata e ti ringrazio….sono le stesse sensazioni e percezioni che vivevo mentre realizzavo le mie fotografie. Il “sentire”, con la mente e con il corpo il luogo e le situazioni, è stata sempre una costante di questo lavoro. Anche i silenzi hanno avuto molta importanza, l’assenza di rumore in posti così aperti e incontaminati è diversissima da quella che sono in grado di percepire a Roma, la città in cui vivo e lavoro. I silenzi sono stati importantissimi per entrare in sintonia con DOM. Ci sono due rumori particolari che porterò sempre con me, lo schiamazzo dei bambini in lontananza e lo strano verso delle cicogne nei loro nidi.
Ci sono alcune parole che accompagnano la lettura di questo diario di viaggio: semplicità, sincerità, genuinità. C’è il rischio che la nostra percezione letteraria trasferisca su questi luoghi una estetica di cui loro invece sono impermeabili? Come restituisco la realtà senza che essa diventi specchio del me e di ciò che in essa inevitabilmente proietto?
Una domanda davvero interessante e complessa. Provo a rispondere…..Credo che quando si racconta fotograficamente un luogo lontano, permeato da usi e costumi profondamente diversi dai nostri, si debba scendere a compromessi, per realizzarlo prima, e leggerlo in seguito. Forse il segreto sta nel non opporsi troppo all’inevitabile “contaminazione” che le nostre visioni e le nostre personalissime esperienze proiettano su quello che stiamo osservando. Trascorrendo il tempo in quella fattoria spesso mi sono tornati in mente vecchi racconti dei miei nonni, vecchie serie televisive e perché no alcuni altri lavori fotografici ambientati in luoghi e situazioni simili. Anche il commento di molte persone che hanno poi visto esposto il lavoro è stato: “ Sembra di vedere i bambini di un qualche paesino italiano negli anni ’50 “
E’ ovviamente difficilissimo raccontare senza trasferire nelle immagini visioni che ci appartengono. Per far si che l’effetto sia più mitigato possibile, credo ci si debba abbandonare, nel vero senso della parola, alla quotidianità, vivere più possibile come si vive da quelle parti, sposarne usi e costumi. Nel mio caso il segreto è forse stato di ridiventare un po’ bambino.
Insegni e costruisci percorsi con i tuoi studenti: cos’è per te un reportage? Quando l’incontro con l’altro è “pronto” per essere raccontato con le immagini? Quale esperienza oggi, secondo te, necessita di essere detta con il reportage?
Le parole chiave sono consapevolezza, spontaneità e intimità . Bisogna lavorare su cose fortemente personali e se non lo sono, fare in modo che lo diventino. Solo attraverso l’intimità e l’empatia si possono scrivere storie che arrivino direttamente al cuore di chi osserva. Il reportage è intimità!!!
Intervista a Gianluca Camporesi sul progetto Visioni di Ipercorpo
di Arianna Novaga
Raccontaci la genesi di questi tuoi “ipercorpi”. Chi sono e da dove provengono?
“Ipercorpo” è un festival prodotto da Città di Ebla, un collettivo artistico che oltre a produrre teatro organizza dal 2006 questo festival delle arti dal vivo. Riguarda forme teatrali, performances, installazioni, danza… Da anni fotografo il festival, direi dalla prima edizione ed è lì che trovo i miei corpi. “Visioni di Ipercorpo” è una sorta di antologia che si concentra proprio sul corpo.
Collabori con il Festival e con la compagnia Città di Ebla da diversi anni, che altri lavori hai fatto con loro e con il loro teatro?
Città di Ebla è la compagnia che mi ha adottato praticamente dalla sua nascita. L’esigenza è stata sempre quella documentativa, sia in ambito video che fotografico. Con il passare del tempo, però, è apparso evidente quanto le immagini generate potessero, in alcuni casi, prolungare la vita dei progetti, trasformandoli. Ad esempio, il progetto editoriale Pharmakos è scaturito da un percorso teatrale durato tre anni (2006-2008) che porta lo stesso nome. In questo progetto, per me molto importante, il rapporto con il corpo è proprio il tema che il regista Claudio Angelini tratta. La relazione tra il corpo e la medicina, il teatro anatomico, la morte, sono alcuni degli elementi in gioco. Un altro progetto che vorrei citare è “Suite Michelangelo”, quasi un concerto con un impianto scenico fascinoso, l’interno di una nuvola, una bolla nel marmo, che ha dato origine a una serie di scatti nei quali le forme di un corpo disegnano un tessuto bianco.
Come si traspone una performance che è movimento, suono, carne, in una immagine, cosi differente sul piano ontologico?
Fotografando lavori che sono già immagini, teatro e performance, mi trovo davanti a qualcosa che succederà in divenire, che non mi è noto, quindi è difficile dire se c’è una progettualità reale, se c’è un modo per trasporre la scena in immagine. La ricerca è istintiva, mi lascio condurre in quello che accade. Trovarsi di fonte di una performance pone delle questioni ogni volta diverse e cambia anche la mia visione fotografica.
La fotografia del teatro non concede enorme libertà, il tentativo è quello di essere il meno invasivi possibile per lasciare che il pubblico viva l’esperienza senza distrazioni. E questo è per me uno stimolo, mai un ostacolo. A volte è concesso di muoversi di più perché la scena lo permette, altre volte no. Dopotutto si è testimoni delle visioni di qualcun altro e i mezzi di interazione sono limitatissimi. Non ne faccio mai una questione che mi riguarda, io sto, dopotutto, godendo di un impianto scenico. Ogni volta è una esperienza diversa ed è questo che costruisce il lavoro. L’altra parte del lavoro la si fa scegliendo l’immagine che più ti riguarda. Ed è una parte altrettanto importante.
Parliamo delle tue fotografie. Come si evince dalle immagini che realizzi, non si tratta mai di puro e semplice documento perché la tua ricerca si carica sempre di più di aperture interpretative personali, caratterizzate e riconoscibili sul piano poetico e stilistico. Pensi di avere un “modo” di vedere? E se si qual è?
A – Come ho detto, in generale il mio approccio al fotografare è umorale e istintivo, si trasforma secondo quello che accade in scena.
Poi, però, riguardando i lavori ci si ritrova forse una poetica, magari uno stile. A me questa cosa spesso sfugge, perlomeno nell’immediato. Il mio è più un approccio al fare, non c’è premeditazione, anche perché mi trovo in situazioni sempre diverse, ognuna con le proprie regole. Mi rendo conto di cercare alcune cose, certi riquadri, certe dinamiche di luce, tento di sfruttare i pochi elementi che ho a disposizione.
L’alfabeto gestuale che metti in scena nelle tue immagini proviene dalla performance e dal teatro ma a mio avviso sconfina quasi nella scultura. Trovo che queste tue figure abitino plasticamente le inquadrature e siano perfetti esercizi scultorei. Tu che ne pensi di questa interpretazione?
Si, è vero. Cerco le foto che mi riportano più alla forma scultorea. Rispetto allo spazio teatro, Ipercorpo vive in luoghi diversi e io mi nutro fortemente degli elementi che non sono pensati per lo spettacolo, cerco di incastrare i corpi come sculture nel contesto in cui si muovono. Cerco l’anomalo nello spazio e cerco di godere dei luoghi dove questi corpi vivono. Copro nello spazio insomma, una visione perfetta da ri-generare.
Come vedi il prossimo futuro? Come continuerà questo tuo viaggio nella performance fotografata?
Questa è una domanda molto attuale e che soffre in maniera significativa dell’esperienza che tutti abbiamo appena vissuto. Vorrei rispondere citando Gianni Rodari… “La mia esperienza è che ci si trova bene a fare quello che capita di fare…”. Devo dire che mi ritrovo molto in questa affermazione. Mi auguro di poter proseguire il percorso con Città di Ebla, per me è sempre di grande stimolo, ma è una cosa che non do mai per scontata.
Intervista ad Alessandro Secondin sul progetto Il numero secondo
di Arianna Novaga
Il numero secondo è il tuo primo vero lavoro di reportage, che ha assunto una dimensione intimistica perchè racconta di qualcosa che ti è molto vicino. Vuoi raccontare come nasce questo progetto e l’urgenza, immagino anche emotiva, che lo ha sostenuto?
“Il numero secondo” è il mio primo vero lavoro, ed è molto importante per me perché mi ha permesso di scoprire un lato intimistico della fotografia che non avevo ancora esplorato. Il progetto nasce durante un workshop ed in un periodo molto particolare della mia vita, che mi ha portato a scavare nel mio io, partendo da un episodio molto forte per un bambino di soli tre anni. Lo scattare per me era quasi un modo per liberarmi di un peso, che avevo dentro direi quasi da sempre.
Emerge dal tuo racconto un tono privato, introspettivo, silenzioso, talvolta addirittura lancinante per la sua cruda bellezza, che fa venire voglia di entrare in punta di piedi, per non disturbare.
Il lavoro si è svolto in diversi mesi, e gli scatti nascevano da esigenze interiori non necessariamente in un ordine ben preciso, ma unicamente quando avvertivo certe sensazioni ed emozioni; dovevo far uscire o rappresentare in qualche modo quello che avvertivo.
Le tue fotografie alternano uno stile diarisitico, con istantanee da album di famiglia, ad elementi più simbolici e concettuali. Come hai composto la storia, a quale principio ti sei affidato?
Sono partito da quello che sono io ora, passando per i miei affetti e miei luoghi, ma anche dalle mie emozioni, che magari possono essere suscitate da un muro o da un albero, che mi riportano a ricordi della mia infanzia. Nel mezzo, l’episodio chiave del racconto, perché è stato proprio quello a condizionare la mia esistenza.
Quanto contano per te il ritmo e la narrazione nella costruzione della sequenza?
Direi che sono elementi fondamentali, perché portano con te il tuo interlocutore; chi si sta interessando a quello che vuoi raccontare
La presentazione delle immagini è inedita perché prevede un coinvolgimento tattile ma anche, in fondo, la possibilità che ognuno si costruisca la propria storia personale cambiando la sequenza.
In effetti potrebbe quasi sembrare una installazione, dove c’è un coinvolgimento nel seguire il progetto stesso. Ho dato una mia sequenza, ma in fin dei conti ognuno può anche rivederla e modificarla a modo suo. Credo che ognuno di noi abbia delle emozioni interiori che escono se stimolate e magari presuntuosamente ritengo che il fatto di poter toccare le immagini del progetto, non solo sfogliarle od osservarle, possa in qualche modo contribuire a tutto ciò.
Intervista a Hassan Rowshanbakht e Hossain Rowshanbakht sul progetto The Wall Collection
di Simone Azzoni
What is for you the city of Kashan? what is the historical, cultural and symbolic meaning?
Kashan for us has always been a source of inspiration.The richness of history and culture that has manifested itself in the architecture has constantly been a preoccupation for us. The brick and mud domes of the mosques, the continuous and connected ceilings,and arches of the historic bazzar, old and individualistic houses of more than hundreds of years with their many intertwinned rooms surronding the water pounds in the centre circled by fig or pomegranates are all a pleasure to the eyes of the viewer. The thought of the attitude of the younger population who are preoccupied with simply creating something new without due regards to all this history and culture deeply concern and pain us. It is with that in mind that we try to attract attention to that which is always withimn our view and we pass by.
How do you build memory in this city..? by layers? by substitutions?
In our view of the city we do not simply search for the history of our subject. Rather we attempt to merge the authenticity with the contemporary creation which complements the old and historic inheritance of our city.
How can a city transform itself and preserve harmony?
It all is dependant on what we expect from evolution.if we expect evolution to imply elimination of that which existed with new creation the we destroy harmony. But if we retain the originality of form and design but bring up to modern level and modern standard the intricacies and the utilities then we evolve and maintain harmony.
What do you want to tell with The Wall Collection?
Our aim in participation in this collection is to illustrate that modernisation without due regard and planning can so easily change where people private lives from birth through marriage,child bearing and death all intertwined with personal intimacy and happiness become public impersonal space where old heritage changes to commercial malls, shopping centres and car parks.
"In Persian culture home always carrys a unique and special space”.. Can you explain that?
In Iranian culture going back over 2000 years family has a unique and superior place and its preservation plays the dominant and primary consideration. In all the celebrations and historic feasts all members of the family gather together. Family is the primary element in the survival and continuity of individual and collective survival. As such and due to the importance of family ties family home has become sacred and close to family values. Which creates a sanctity which prohibits the entry and intrusion of strangers.
With what eyes should we look at your photographs?
These pictures have been taken with a critical angle to focus the viewers attention to all the things that are apparent in daily life but are ignored by the viewers. Although these pictures are all taken in Kashan but they are not unique to Kashan and can be observed everywhere around the globe. They are aimed to reflect and magnify modern man's desire and impact on the modernisation on his habitat and surroundings.
How do you define your photography? Conceptual photography? Reportage?
As we stated previously undoubtedly the remaining old and historic houses will soon disappear and and tall modern buildings will take their place and our photographs document that. We are the daily witness to Kashan transformation from its past to its future. We are documentary photographers that have been recording the metamorphosis of this old historic city to a modern metropolitan city.
What is the mission of photography?
In our opinion photographer creates the opportunity for others to view the world from his perspective and understand his perspective. In other words the photographers mandate is to show the world from his vantage point to others.
What is interesting about contemporary photography in Iran?
Iran is one of the first countries in Asia to receive the technology of photography three years after it started in Europe. But unfortunately it remained in the domain of the imperial court for an extended time before it reached the ordinary population. Artistic photography began in the decade prior to the revolution when exhibitions of photographic work began to be encountered. However with the revolution and the 8 year Iran/Iraq war photography remained in the domain of photo journalism. It was only then that it became part of higher education curriculum and took its place in fine arts and impressionism.
Intervista a Brian McCarty sul progetto WAR-TOYS
di Simone Azzoni
Ci puoi raccontare la genesi del progetto? L’origine dell’idea..?
The roots of War-Toys trace back to 1996 and a study I shot for an exhibition in Zagreb immediately following the Croatian War of Independence. I was invited to participate while working on a grant at the Benetton-supported creative research center Fabrica near Treviso. Thinking about the post-war setting of the exhibition, I was reminded of conversations with my father about his experiences fighting in Vietnam. He would never share much of anything, but once he talked about playing with tin soldiers and toy guns as a child, all the while hearing about his “hero dad” who died serving as a naval aviator in World War II. Looking back, he felt is was all a sort of indoctrination, making him feel it was his duty to fight, no matter the war. As a result, he never felt comfortable sharing any war stories with me, especially as a child, but I was left with a longing to know. I found some old letters he had written my mother while serving, and I used a 1960s-era action figure to reenact moments from his life – including the first time he was shot at and the Tet Offensive. Initially, the Croatian Photographic Society rejected the series, saying that they wanted to move past the war. In defending the work, I had an opportunity to give more thought to the ideas at the core. I felt that confronting the realities of war, without aggrandizing causes or casting heroes, was essential to stopping generational cycles of violence. Gratefully, based upon my appeal, the photos were accepted into the exhibition.
Over the next fifteen years, as my career as a “toy photographer” continued to build, I kept thinking about the project and slowly developing in my mind. I learned about expressive therapies and their use in treating war-traumatized children. The idea of collaborating with these children, inviting them to essentially art direct my photos of locally found toys was born. I spent a long time consulting with experts. I owe a great debt to Dr. Judy Rubin and Dr. Julia Byers for the introductions they made on my behalf and the guidance they gave in creating the methodology behind the work. I’m proud of the precautions taken to ensure the safety (emotional and otherwise) of the children who participate.
Non ti nascondo che ho subito pensato ai disegni di Terezin… nell’esposizione chiedi che sia mantenuto i disegno. Perché lo spettatore mantenga il confronto con la fonte? perché la foto sia “solo” una traduzione del disegno?
Without showing a single face, War-Toys is designed to humanize populations too often cast as “others” or somehow deserving of their fate. Much like seeing the artwork of children killed in the Holocaust (such as from the remarkable Terezín Ghetto collection), a drawing provides an instant connection to an actual child, one whom the viewer is able to identify with and imagine as their own child and/or a younger version of themselves. The drawing is also an artifact, a document of the art-based interview at the core of the War-Toys approach. Often, a child's full account is much more than what they draw. Sometimes a child will starkly portray daily life in a warzone; sometimes they bury trauma in seemingly innocuous scenes. It takes the specialized skills and talent of the art therapist who travels with me to safely unlock the artwork’s true meaning through careful observation and conversations with each child. By moving back and forth between the drawing and photo, making connections between the various elements in each, the viewer is made an active participant – sometimes seeing obvious connections between elements, other times having to decipher as the therapist does to reveal the truth. This act is intended to further draw the audience in, to make them a participant.
Ho pensato anche a Rodari e alle sue filastrocche sulla guerra.. cosa rappresentano questi giocattoli sopravvissute alla barbarie?
On the surface, the toys are characters, often familar totems representing the various people and elements from children’s accounts. While they serve this purpose well, there is more going on. The toys are all sourced from where the children live – most often purchased in nearby bazaars, shops, or from outdoor vendors. Many are new, coming from the same factories in China that supply cheap, plastic toys to stores around the world. Some toys are used – cleaned out from homes in the EU and US, donated to local charities, and then sold by the kilo to distributors in the Middle East. It’s why there is a mix of toy characters from the 1960s until now. The toys represent the ways we are all connected – through our play and through the things that we play with. They show the interconnectivity of our cultures (via pop culture) and the spread of consumerism, the spread of western ideals and archetypes, perhaps to the detriment of local identities. The toys reflect who we are now, for better or worse.
Lo sguardo dei bambini sulla realtà è un punto di vista spesso trascurato. Da dove ripartire per dare a questo sguardo una centralità?
An 8-year-old can’t write a memoir or give a lengthy interview to share what they have been through. Someone has to facilitate them telling their stories, and it has to be done in a very careful way. To please an adult, especially one so interested in hearing about their experiences, a child can easily re-traumatize themselves, re-living painful memories in an unsafe and uncontrolled way. This is why it’s imperative for me to work with expressive therapy experts. When properly guided, children can contribute their unique, too often unseen points of view while finding empowerment and a means to process their emotions.
Il rapporto tra sfondo e giocattoli mette in crisi la coerenza, il principio di non-contraddizione. Questo shock tra artificio e storia è uno modo violento per risvegliare attenzione?
The contrasts between the reality of the setting and the perceived innocence of the toys aren't necessarily meant to be shocking, or rather, it is a byproduct of the approach. From my perspective, those toys belong in those places. They are surrogates for actual people, recreating actual events. But these events are being presented through a filter of play, from a child-like perspective. It is a way to connect to the actual moment and the story the children want to share, without being overwhelmed. Many people turn away—literally and metaphorically—from graphic images showing the true costs of war. For those for whom war is simply beyond the realm of their normal existences, I invite empathy through the common experience of play, one of our earliest tools for understanding the complexities of human behavior. Viewers are able to connect with on-the-ground experiences of war, placing themselves into a moment without danger of being consumed by it. The toys provide a safe connection.
Per non cadere nella fiction del reale hai usato il paradosso. Cos’è per te un paradosso?
In the case of War-Toys, the paradox is that these photos of toys may provide a better idea of what children in war zones experience more than photos of the children themselves. Pointing a camera at a child makes a powerful, emotional connection, but it’s not the same as seeing through their eyes, listening to, or engaging with the stories they struggle to tell. To do that requires the safety of therapeutic spaces; active attention to what they say—and don’t say—and a willingness to respond, interpret, engage, and speak their language—to play.
Se dovessimo usare una categoria.. è uno still life o un reportage? Se è un reportage, in cosa consiste il suo valore etico..?
Because I am the one interpreting the children’s accounts and staging the toys on location, the photos are closer to still-life than reportage. However, I try to recreate what the children share as accurately as possible, including in composition, characters, and setting. I wish the children could accompany me on location and help with the photos more directly, but apart from the obvious physical dangers, even with the therapist there, it would be highly unethical to immerse a child back into these events, especially at the actual places. When looking through a viewfinder, the pantomime of toys is all too real. Whenever possible, not as often as I’d like, the resulting photos are shown to the children in controlled settings and help them further communicate and cope. Just knowing that they are heard and that their perspectives are valued has a powerful effect.
Come proseguirà questo progetto?
War-Toys is the sort of project that once you start, it’s almost impossible to finish. There are too many stories in too many places from children that are going unheard. Knowing that it’s something I want to work on for the rest of my life, I recently launched the War Toys nonprofit organization. I will be continuing the art and advocacy work – collaborating with children who have been affected by war, not just in the Middle East – as well as building programs to provide more direct relief and support the organizations with whom I work in the field. COVID-19 has delayed plans, but we’re working on a project to train and certify caregivers in expressive therapies to better help children process their emotions and trauma. We’re also working within the toy industry to influence the designs of inexpensive toys distributed around the world. By working with major manufacturers in Asia-Pacific, we can encourage and support the production of toys that promote resilience and different ways of thinking about war and reach millions of children.
Intervista a Mike Crawford sul progetto Obsolete & Discontinued
di Simone Azzoni
You are a photographer and photographic printer, can you explain your job?
I’ve predominantly made my living as a photographic printer working on exhibitions, folios and publications for a variety of photographers. I have had the opportunity to work with some great and fascinating photographers and artists which has been a constant inspiration. Throughout, I’ve always worked on my own projects and I think there is a relationship between my commercial work and my own creative work. One inspires the other.
Can you explain your project? how did you choose the artists in the project?
A client gave me the contents of his late Uncle’s darkroom five years ago. Mostly discontinued photographic papers from 40 to 50 years ago. Materials that should have been thrown out, materials that should not really work any more. After testing it seemed there was a lot of potential for using experimental and alternative processes and techniques. At the time, I was involved with the London Alternative Photographic Collective. The idea of a project formed which I proposed to members of the collective which then expanded to many photographers outside as different people were suggested and recommended. 55 participants took part in the end.
The project undermines the idea of author. Who is the author? The material? Printer? the photographer?
That is a very good question! Throughout, I’ve had difficulty in what to call myself, but am trying to accept curator and editor. But of course, it is a totally collaborative project so really the collective response by the participants is the author.
What does obsolescence mean to you?
Perhaps there is a little part of my character that is reluctant to change. I’ve never been interested in buying a new camera when the one I use gives me good results. I’m not too good at upgrading Software either! But I think this project shows how much potential there can be in something considered obsolete such as the latent possibilities in something like old, discarded photographic paper.
After distribution prints were returned by the using a wide variety of processes including silver gelatin, lith printing, wet collodion, pinhole, paper negative and several hybrid analogue/digital techniques.... what does this mean to you?
That was one of the best parts of the project. To see the variety of work, the different techniques, styles, subjects and motifs. I’m very glad that I kept the brief open to allow as much individuality as possible. But then it was rewarding to work with these images to create groups and narratives between them. To see how they could work together joined by content and not by technique.
After Andy Warhol's Empire material comes back to talk about itself? What does the material tell us?
It's interesting as there seems to be quite a bit of current artistic photographic work directly concerned with the ‘material.’ Alison Rossiter’s work using outdated paper is both inspiring, intriguing, playful and profound. Another project that resonated, which was exhibited in Ljubljana by Slovenian artist Aleksandra Vajd last year, I found equally fascinating. Sheets of photographic paper, exposed and processed as simple photograms, partially dyed in vibrant colours, then stacked and laid on the gallery floor in a variety of repeating patterns. The artist describes the photographic content of her work as being reduced, ‘with an emphasis on the materiality.’
Material, (the paper), has a time and images have another time. How does the dialogue take place between them?
I’m not sure if that dialogue is there in most instances when the material is there primarily. to support the image. Otherwise to display it as a print. Maybe that's not true. One of the fascinating aspects of vintage prints is the feel, look, texture and colour of the original paper and print. This becomes increasingly apparent when old negatives are printed on contemporary papers. The print may be technically correct but there is always visually something missing. Perhaps the feeling of time? The feeling of it's era or the age of the photograph is lost.
Your project also talks about the substance of photography. What is the nature of the image? The material it's made of?
I hope not. There can be sometimes too much attention given to the craft and technique of photography (albeit usually just from other photographers), when the importance should be on the content and message of the photograph. Indeed how it communicates to us, not the method by which it is printed or presented. Having said this as a professional printer, perhaps I am assuming that work is well printed or reproduced in the first place so our attention is mostly on the image.
What is the relationship that photography has with memory?
I think memory is one of the great subjects of photography and is something that writers (outside of photography) will often pick up as an important theme when writing on the medium. Memory can be collective or individual, and in turn, photography can look back to record historical events or more poignantly our own personal histories.
Can you give us a definition of contemporary photography?
Not sure if I can! There are so many different strands of contemporary photography. From fine art to photo journalism, from Instagram to the scientific document. In one way it has become more democratic and universal as we are now all smart phone photographers, while on the gallery and fine art side it becomes more exclusive and rarefied. I always think about print size when considering the current state of fine art photography. They are often either very big or very small. For me, the oversized can sometimes be lacking as the bigger it gets, the less our attention is required. In the gallery we sometimes study them for as long as it takes to walk past them. But the small print? That can draw the viewer in for a closer and more intimate encounter.
“As for my personal photographic work, most of my images evolve from emotional impulse and political intent.” J. S.
Intervista a Jens Schwarz sul progetto Themmuns
di Simone Azzoni
What is the meaning of the title Themmuns?
The title refers to a slang word for ›them ones‹, the opposing side in Northern Ireland debates among Catholic Irish Republicans and Protestant Loyalists. Fellow members of one‘s own side are known as ›ussuns‹.
I have been to Belfast and, between walls and barbed wires, in the private gardens of the houses, I have seen - on the gates - phrases like "english keep out”. What is the true origin of this hatred?
I’m not a historian nor am I a local citizen of the region. But as a photographer having travelled to different conflict areas I’ve learnt that often hatred within opposing or divided societies has its origin in how a majority deals with a minority.
In Northern Ireland, over the centuries, a Catholic Irish minority felt dominated by a Protestant British majority on an island that the former felt belonging to ethnically, confessionally and geographically.
But, as we all know, hatred is never a solution.
Do the younger generation now carry on the inheritance of the fathers or can they choose and think for themselves?
Both I’d say. The younger generation has had the chance to be mostly brought up after the 1998 Peace Agreement, so under conditions of relative reconciliation and peace building strategies on both sides.
During my work on the project I was able to witness some great activities within the field of youth work and cross-community groups!
But unfortunately with all what’s going on with the Brexit circus things got worse in Northern Ireland. The Phantoms of the past are haunting a fragile commitment to peace, radical fractions from both sides are gaining increasingly support while Brexiteers just haven’t spent any attention to the Irish-border issue when originally campaigning the referendum in 2016. Maybe – sorry for some personal comment here – they just haven’t spent attention on anything but their disastrous and devastating misinformation strategies. And now the youngsters will have to pay the bill – all over the UK but especially in Northern Ireland.
What does it mean to be a Catholic in Belfast?
In terms of a political conflict I’d say it doesn’t mean anything specific – as long as no one from a different affiliation will assign a particular interpretation and social construction on what it means for him or her being a Catholic in Northern Ireland. All its citizens are humans, after all!
What are the differences and what are the similarities between Protestants and Catholics?
I’d like to answer with a quote from a 21-year old Protestant who, with his very masculine physical appearance and after a couple of drinks on weekends, almost cries because of being afraid that his girlfriend – after a couple of drinks – will have sex with another guy during holidays in Magaluf, Spain without him: ›I’m not sectarian, I think we’re all the same‹.
What will happen now with the Brexit?
We will learn it on Facebook, maybe rt.com will know it before...
Every reportage is a story. How will your story end?
Personally I wouldn’t consider my Themmuns work a reportage. It contains elements of reportage as it contains elements from other photographic genres. I like to play with these and balance them. This might be one of the core characteristics of my photographic approach.
What is the ethical substance of your photos?
Respect, warmth and reciprocity. If I ›take‹ something, I’d always wish to give something in return.
Can a photo be political?
A photo can be almost everything.
Photography, in the beginning, is a technical process. Nothing more and nothing less. What a photographic image will become then, is a product of a variety of expectations, contextualisations and interpretations. That’s why it is so powerful! Not only in the positive sense. As for my personal photographic work, most of my images evolve from emotional impulse and political intent.
What situation in the world are you interested in knowing with the camera?
In my work I’m interested in sociopolitical issues that deal with questions of both individual and social identity.
I’ve been following this main theme for more than two decades now, in different places, different settings and different states of mind as well.
And I haven’t found the answer yet. That keeps you moving!
Francesco Cito Palestina 1983 - 2011
di Simone Azzoni
Quale punto di vista hai costruito sulla questione palestinese, considerando anche gli aggiornamenti della cronaca attuale?
Parto sempre dal presupposto di aver puntato sul cavallo sbagliato. Ero partito con l’idea che tanto avrei smesso quando i palestinesi avrebbero avuto uno stato indipendente. Poi ho sempre previsto e immaginato che, se non fossero riusciti nel loro intento, sarebbe stato uno spargimento di sangue. Purtroppo queste sono scommesse che non avranno mai fine. Per come si sono svolte le vicende negli ultimi anni non vedo nessun futuro, non ci sarà soluzione.
Cos’è nei tuoi occhi l’intifada?
Quando sono andato non era ancora scoppiata la prima intifada. Però era in corso una occupazione da anni. Prima della fine degli anni ottanta i palestinesi non avevano partecipato ai conflitti degli israeliani nelle aree arabe limitrofe.
La prima intifada è stato uno scrollarsi di dosso la merda. Una reazione dei giovani che si sono scontrati con padri e nonni incapaci di reagire.
Capivo che non ci sarebbe stata nessuna soluzione, da entrambe le parti. Arafat poi sbagliò a coinvolgere i palestinesi della diaspora siriana e tunisina.
Era gente fuori dalle righe che non aveva vissuto la guerra dei palestinesi dei territori occupati.
Il grosso sbaglio fu estromettere la componente che aveva iniziato e proseguito l’intifada.
Chi aveva sostenuto lo scontro con Israele fu messo da parte.
Credo che nei tuoi scatti si ponga centrale e urgente la questione etica…
La prima cosa che bisogna fare è avere rispetto per i soggetti con cui ti rapporti, che siano essi in un modo o in un altro: che siano camorristi, mafiosi, o guerriglieri, nessuno nasce santo. Siamo frutto della società in cui viviamo. Io rispetto la specie umana, e mi sono messo nella condizione di avere rispetto per tutti. Poi, di fatto in guerra sei testimone, non puoi partecipare alle angherie a cui assisti, vedi qualcosa che non appartiene a te e sei lì perché dovresti documentare. Non ti nascondo che ci sono momenti in cui se avessi avuto un mitra in mano avrei sparato.
In una recente intervista su Arte Oliviero Toscani dice che ai fotoreporter basta togliere sangue e morti e non sanno far più nulla. Cosa ne pensi?
Ho già avuto modo di dirgli su un giornale quello che penso di lui. Toscani è un imbecille, non sa manco cosa sia l’etica né tantomeno cosa sia un reportage. Non ha capito un cavolo del nostro mondo. Il suo cruccio è un padre di cui non è riuscito a ricalcare le orme.
Disprezza i fotoreporter e poi utilizza le loro foto per le campagne pubblicitarie.
Cosa cerchi nella scelta del bianco e nero?
La fotografia vera nasce in bianco e nero, poi lo sviluppo del colore è avvenuto in tempi più tardi. La fotografia in bianco e nero ha bisogno di molta più grafica e se non ha una buona costruzione diventa piatta.
Senti che l’Iphoneography possa essere una minaccia per il reportage?
Non ho mai incolpato qualcuno in termini tecnologici. La fotografia come altre attività è cambiata nel corso del tempo. I miei antenati avevano una cassetta con le emulsioni. Il problema non è tanto il mezzo ma cosa fotografi.
Il reportage è morto perché non ci sono più gli editori e i contenitori in cui poter pubblicare le store realizzate. Sono venute a mancare le scuole di giornalismo, le redazioni dei giornali oggi sono scatole chiuse in cui non si entra e di cui si capisce poco perché tutto
arriva dal computer. In tutto questo aggiungi che molti giovani che si sono avvicinati alla fotografia l’hanno ritenuta tecnicamente facile.
Si è creato poi il presupposto che, non avendo più un contenitore, si pensa subito e solo al concorso fotografico che ti porta a raccontare di meno e a cercare nel contesto la composizione pittorica. Si guarda di più all’estetica.
Ad esempio il Word Press?
Si pensa che il Word Press sia la panacea sia di tutti i mali. Era nato per esser un premio giornalistico, oggi le foto sono estetizzanti. Considera che l’Italia è il terzo paese che vi partecipa.
La fotografia rimane un mezzo potente per raccontar storie, forse il più potente. Per te?
Io fotografo per capire, per cercare di capire. Viaggio molto meno rispetto ad anni fa perché non ci sono più i contenitori adatti per pubblicare una bella storia.
Quello c’è mi ha sempre spinto è la curiosità di capire quello che succede, vederlo con i miei occhi. Non aspetto che qualcuno me lo dica in modo distorto o deformato. E non serve andare in capo al mondo, basta andare dall’altra parte di casa mia.
Nei tuoi Workshop incontri anche ragazzi. Cosa chiedi loro?
Chiedo fino a che punto si è masochisti. Questo è un lavoro che non ha più futuro. Ma se qualcuno assolutamente vuole fare il fotografo allora che prenda una sacca e segua un’avventura all’estero.
Cosa cerchi ancora nel mondo, cosa ti manca da esplorare?
Mi è mancato il processo siriano, tutto quello c’è è avvenuto l’ho seguito solo relativamente. Mi manca la Siria, e ancora di più un viaggio negli USA ma attraverso quell’America povera di sessanta milioni di abitanti che vivono in modo miserevole.
L’ America non è solo quella di Trump.
Intervista a Filippo Romano
a cura di Simone Azzoni
Novo Planeta. Un viaggio portoghese. E’ un lavoro scritto a quattro mani.
Una suggestione reciproca, i testi non sono didascaliche delle o alle immagini. È un viaggio parallelo, un grande recipiente. Non c'è gerarchia ma una unità. The Passenger mi chiedeva delle cose ma sono andato oltre la letterarietà.
Quella con Roberto Francavilla è più di una collaborazione..
Roberto insegna letteratura portoghese, è un traduttore importante, anche di Pessoa. Conosce l'Africa lusofona, il primo viaggio a Capo verde l'ho fatto con lui. I successivi li abbiamo condivisi in forma di racconto. Siamo in dialogo da sempre e questo progetto ne è un ulteriore aspetto: la fotografia ripercorre suggestioni, viaggi modi e atteggiamenti legati al mondo portoghese. Una galassia di immaginazione. Io e Roberto è come se viaggiassimo assieme ma in uno sfasamento che genera un viaggio mentale. L'idea di fondo è un dialogo tra due amici con passioni culturali vicine. Uno dentro le immagini, uno nel mondo delle parole.
Rispetto al primo lavoro questa volta abbiamo però deciso di svincolare le parole dalle immagini. I testi diventano così ulteriori segni da leggere: una biblioteca ulteriore.
Nelle immagini si respira una serena distanza. Un'armonia non solo compositiva..
Si le immagini raccontano una amorosa distanza. Ho scelto immagini di luoghi più che di persone. Lavoro sui due livelli, incontro luoghi e persone, le intervisto, sto con loro. È una mia modalità di lavoro. Ma ci sono anche momenti di totale solitudine.
E poi c'è quella abusata parola: saudade. Una volta un regista francese disse che è un sentimento positivo. Lo trovo interessante perché è una maniera di tradurre una mancanza in elemento attivo, riuscire a vivere un distacco metabolizzandolo in una forma poetica.
Saudade non è tristezza ma il modo di affrontarla.
Queste immagini si ricompongono in una mappa o una atmosfera?
Prima di tutto un'atmosfera, chi vorrà costruirsi una mappa di riferimenti rimarrà stupito, anche perché alcuni scatti sono stati fatti a meno di un chilometro di distanza tra loro.
Cos'è per te la luce?
Direi è il confine dell'ombra e l'ombra è la forma della fotografia.
Alcune immagini ricordano le polveri pastellate che si depositano su memorie diafane, alla Giorgio Morandi...
Sono polveri personali, ritrovo spesso, ovunque vada un pezzo della mia infanzia siciliana. L'atto fotografico è un atto mentale di concentrazione, è guardare le cose e dargli un peso e una forma. Cosa ti ha lasciato dentro questo “viaggio”?
L'urgenza di raccontare ancora molte cose ed esplorare quella dimensione.
Questi scatti mi mettono in pace rispetto ad altri lavori come quello su Nairobi, lì il senso è meno poetico e più complesso e duro. Un ragazzo angolano che ha visto questi scatti ha capito dove stavo, le ha sentite sue. Ecco io cerco una universalità anche in una problematica sociologica o antropologica.
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